26/09/11

Straight Edge - Motivi Di Una Scelta - 6



Giro la scena musicale e politica ormai da un po' di anni, e ne ho viste di cotte e di crude. Mi sono anche accorto che oltre a parecchi pregiudizi c'è pure molta ignoranza sul movimento straight edge e/o sulla scelta di vita "drug free" e sulle motivazioni, in particolare, che possono portare ad una tale scelta, proprio per questo ho deciso di pubblicare alcuni testi riguardanti questo argomento, i MOTIVI DI UNA SCELTA, alcuni tratti da un opuscolo che ho in casa, che si chiama "A Commitment For Life" che tratta proprio l'argomento straight edge, alcuni scritti da conoscenti amici o anche da me stesso, chi lo sa, non metterò le firme.


Quando mi chiedono perché son diventato straight edge non ho mai tempo per spiegare a fondo le mie ragioni, a volte mi soffermo alle solite motivazioni politche. A volte notando certi elementi mi nascondo dietro il "E' UNA COSA TROPPO LUNGA DA SPIEGARE" troncando lì di botto la discussione (come se dovessi spiegare io il perchè della mia astinenza e non loro, siamo caduti in basso eh?). i motivi sono semplici, non voglio delegare le mie emozioni a un qualcosa, non voglio essere aiutato da sostanze psicoattive, voglio tornare semplicemente naturale e me stesso, puro perfetto e unico padrone della mia vita, un auto esaltazione individualista? si, ma anche un approccio coerente alle mie ideologie antispeciste ed ecologiste. Prima di smettere di fumare dicevo sempre MA IO FUMO TABACCO PUEBLO (quante volte l'avrò sentito?) come se fosse abbastanza per la liberazione animale, senza pensare a quanti habitat vengono distrutti, a quanti danni fa l'agricoltura intensiva di quelle multinazionali.
Io non voglio vivere col senso di colpa e nascondermi dietro una frase banale solo per alimentare un' insulsa pratica di controllo, come non voglio bere bevande con chiarificatori e chissà quante altre merdate usano per rendere presentabili degli alcolici. Ma per me lo straight edge non si ferma solo a queste cose: forse è iniziata un pò come per tutti i ragazzini di 13 anni che conoscono nuove persone e vogliono sentirsi accettati, io feci lo stesso, cominciai a fumare e bere occasionalmente, per forza di cose una città apatica noiosa senza nulla da offrire se non discoteche e centri commerciali, ti porta a bere per noia.
Sono sempre stato un ragazzo con moltissima insicurezza, timidezza e bassa autostima, ho attraversato dei momenti brutti dai 16 ai 18 anni, tra cui una tormentata separazione dei miei genitori e una depressione che mi ha portato all'autolesionismo fisico, a bere continuamente e a prendere per un breve periodo degli psicofarmaci (poi ho smesso perché odiavo sentirmi una larva). Conoscevo già l'esistenza del movimento straight edge e l'ho sempre considerato come un movimento ridicolo e idiota, ma ricordo di aver visto ad un concerto una fanzine che parlava appunto di questa sottocultura e lo trovai interessante, provai l'astinenza ma per via della mia poca convinzione durò a malapena un giorno, da li smisi di pensarci per anni, ma per vari motivi cominciai ad ascoltare gruppi straight edge e due in particolare (earth crisis ed have heart) mi portarono ad interessarmi di nuovo, giorno dopo giorno, fino a riuscirci. Lo straight edge mi sta aiutando ad amare di più me stesso a distruggere i miei problemi con lucidità con le mie forze cercando di essere più sicuro, negando qualsiasi sostanza che possa prendere il controllo su di me, vedendole quasi come un insulto alla mia unicità, mi da un senso di libertà e potenza che non ho mai provato, rifiuto le false convinzioni che portano a bere e drogarsi per divertirsi, o ad avere tra le mani qualcosa di ricreativo per sentirsi a proprio agio con le persone, o a essere estroversi grazie ad un aiuto, lascio fare al mio istinto a me stesso e a nessun altro, ricordando che ho solo questa vita da vivere, e la voglio vivere momento per momento essendo me stesso fino in fondo.

20/09/11

Shikari / Seein' Red - Split 10"


Ero in quel dell'antimtv day, l'ultimo, e giravo tra le distro, quando trovai, spulciando Shove, in codesto split, neanche a dirlo l'ho pigliato al volo.
Premetto che ovviamente conoscevo già da tempo lo split ritenendo entrambi due gran gruppi.
Non penso ci sia bisogno di particolari presentazioni dato che sono due gruppi comunque immensi, per una ragione o per l'altra.
Se volete qualche presentazione fanculizzatevi qui e qui.
Molto bella la copertina secondo me, solo peccato l'assenza di un libretto degno di nota o cose del genere, solo un foglio scarno coi testi e stop. In questa versione per lo meno. Mi accontento e ascolto.
Si parte con gli Shikari, la miscela è sempre la stessa, sempre valida, direi.
Batteria possente e continua, non eccessivamente veloce, distorsioni grezze e massicce, riff pesanti, qualche dissonanza, linee melodiche sempre molto presenti anche se non sempre particolarmente in evidenza, voce lancinante e urlata, allo stesso livello della musica.
Qualche parte senza distorsione, qualche accelerazione, stop 'n' go mostruosi e la minestra è fatta.
Menzioniamo i testi dai, più introspettivi per gli Shikari, più politici e sociali per i Seein' Red, ma tutti abbastanza aggressivi e critici. Mi piacciono e approvo.
In questo disco dei Seein' Red si sente bene il fatto che tutti quanti fecero parte dei Lärm, specialmente in Asshole.
Si tratta di un punk hardcore molto tirato e ben suonato col basso in evidenza e i riff massicci, assolutamente non scontati, e la voce più in evidenza rispetto agli Shikari, ma anche meno urlata. Si arriva anche a qualche sfuriata in blast proprio in stile Lärm.
Poche le pecche del disco, qualche calo di tensione in entrambe le parti per le parti più lente, per il resto una bombazza del cazzo.
Io apprezzo.

Tracklist:

Shikari side
1- In Existence
2- The Kids Shouldn't Be Playing With Fire
3- Tekila
4- Attitude

Seein' Red side
1- Both
2- Not For Sale
3- Red Rage (non presente nella copertina ma nei testi)
4- Discussione With A Christian
5- Three Seconds
6- Participation
7- Asshole
8- Poem Of The Peoples War
9- Myth Of Freedom (ManLiftingBanner cover)

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19/09/11

Contro Ogni Autorità Fuoco A Volontà

Vi ripropongo la traduzione di un volantino distribuito a Parigi, agosto 2011, trovata qua, che mi è piaciuto decisamente molto.




Contro ogni autorità...
Fuoco a volontà !


È la miseria, caro mio!

Nessun tempo per vivere, nessuna energia dopo ore di lavoro tranne che per accendere la TV, lamentarsi in compagnia di qualche bicchiere di pessimo alcool, di un antidepressivo o del metadone, un abbozzo di preghiera e a letto. Sette ore di sonno agitato prima di ricominciare la stessa giornata di merda, giorno dopo giorno, tutto per qualche spicciolo che passerà dal portamonete del padrone a quello del proprietario, da un qualsiasi commerciante alle casse dello Stato. Facile cadere in depressione, facile lasciarsi andare, accettare il proprio destino e dirsi che niente vale la pena, abbandonare ogni speranza d’altro, senza curarsi, di fronte alla propria miseria, della sorte altrui. Vada come vada, a ciascuno la sua merda. Al di fuori della mia famiglia, della mia comunità, del mio gruppo, nessuna empatia, nessuna solidarietà. Al punto in cui siamo, finché c’è qualche soldo e si riesce a raggranellare qualche briciola (con prestiti, piccoli traffici, sussidi sociali...) perché pensare al resto? Possiamo persino crearci l’illusione che la vita non sia così sinistra rifugiandoci in quel po’ di soddisfazione e di confort che la società è ben disposta a concederci in cambio della pace sociale. Comunque sia, con duemila anni di schiavitù alle spalle, può darsi che l’essere umano sia fatto per vivere in gabbia, padrone o schiavo.
Come una caricatura di ciò che, qua e là, più o meno viviamo tutti.

Polveriera

Magari vi direte che non tutto è così cupo, miserabile e privo di slancio, ed è anche vero. Qualche volta arrivano scintille a dar fuoco alla polveriera, a riprova che questo mondo non è che un vasto cimitero popolato da zombi. In Inghilterra, qualche settimana fa, un torrente in rivolta ha devastato le metropoli tutte lucenti e ordinate. Da poco in Francia, e regolarmente, la rabbia repressa quotidiana esplode con forza in faccia ai padroni e ai loro sbirri. Clichy-sous-bois, Villiers-le-bel... L’odio e la gioia che coabitano in un sussulto di vita. Recentemente sono stati i commissariati, i tribunali, le prefetture, le prigioni, i supermercati a venir bruciati in Tunisia, Egitto, Siria, Libia... e certo non per essere sostituiti con mezzi d’oppressione più democratici.
Scoppiano rivolte di continuo, nelle prigioni, nelle scuole, nelle fabbriche, nelle famiglie. Qui un uomo che rifiuta di obbedire al suo padrone o al suo sergente, là una donna che piazza un bullone in una catena di montaggio, altrove un bambino che non vuole più ascoltare il maestro o un detenuto che rifiuta di rientrare in cella.

Chi sono gli ideologi ?

Queste rivolte, come le rivolte in generale, non godono di buona fama. O vengono rifiutate o vengono recuperate. Si cerca di gettare il discredito sugli insorti trattandoli da pazzi furiosi, da spaccatutto, da criminali, da terroristi, manipolati da ideologi. La rivolta non sarebbe che una malattia o un pericolo da combattere. Allo stesso tempo si tenta di screditare le sommosse attribuendo loro moventi che non hanno: scontri inter-comunitari, un carattere etnico, il rimpiazzo di un dittatore, e così via. Oppure le si recupera appiccicandovi sopra la propria ideologia: si dirà che le rivolte nel Maghreb cercano di instaurare democrazie capitaliste ricalcate sui modelli occidentali, si dirà che i rivoltosi del novembre 2005 lottavano per ottenere un posto di lavoro fisso, si dirà che le rivolte nei paesi sotto la tutela del FMI hanno lo scopo di raddrizzare il timone economico del paese per un capitalismo dal volto umano. Si recuperano allora gli indignati di piazza Tahrir o di qualsiasi altro posto per meglio respingere gli insorti che a margine rifiutano di porgere l’altra guancia e rispondono colpo su colpo. Si cercano di imporre dei portavoce rispettabili: il giovane diplomato, lo studente carismatico, l’avvocato dei diritti dell’uomo, il politico in esilio, il borghese filantropo, ma è solo il berciare di giornalisti e politici.

Noi non siamo molto intelligenti, eppure. Eppure sappiamo che tutto è assai più semplice. Più delle costruzioni ideologiche, è il cuore a suggerirci di rompere questa pace, a dispetto delle nostre piccole comodità. C’è una logica implacabile nel fatto di restituire i colpi, di non lasciarsi sopraffare, di ribellarsi. Un riflesso vitale, come il cane che morde la mano che lo percuote prima di chiedersi se ha più da perdere a morderla o a farsi bastonare.
Quel che c’è di più sensato in un mondo insopportabile è esattamente di non sopportarlo; e quel che dovrebbe esserci di più condiviso fra noi, al di là di questa comune miseria, è proprio la rivolta contro questa miseria, e la libertà che lascia intravedere attraverso i mezzi utilizzati e i desideri che trasporta.

Abbiamo l’audacia di farla finita con questo mondo, per non essere come quelli che sono morti in questa vita, ormai persuasi che il coraggio consista nel tollerarla piuttosto che nello sfidarla.

La ribellione è la nobiltà degli schiavi.

Un po’ di buon senso...

Straight Edge - Motivi Di Una Scelta - 5


Giro la scena musicale e politica ormai da un po' di anni, e ne ho viste di cotte e di crude. Mi sono anche accorto che oltre a parecchi pregiudizi c'è pure molta ignoranza sul movimento straight edge e/o sulla scelta di vita "drug free" e sulle motivazioni, in particolare, che possono portare ad una tale scelta, proprio per questo ho deciso di pubblicare alcuni testi riguardanti questo argomento, i MOTIVI DI UNA SCELTA, alcuni tratti da un opuscolo che ho in casa, che si chiama "A Commitment For Life" che tratta proprio l'argomento straight edge, alcuni scritti da conoscenti amici o anche da me stesso, chi lo sa, non metterò le firme.


Mi è stato chiesto di scrivere questo testo i motivi della mia scelta di vita Straight Edge. Tenterò quindi di riassumervi il perchè ho chiuso con un determinato passato e perchè ho deciso di diventare Straight Edge, circa due anni fa.
Tutto è iniziato a Maggio 2009, quando iniziai ad avere le prime sensazioni di insofferenza nel vedere la gente completamente ubriaca e a pensare seriamente di chiudere con la scena street, visto l'andazzo che aveva (e ha tutt'ora) preso la scena negli ultimi tempi.
Molti di voi sapranno che la scena punk in ITALIA, originariamente, era nata come una realtà fortemente politicizzata e di orientamento anarchico o comunque libertario, legato alla cultura delle occupazioni, del rifiuto della guerra, del pacifismo. Ultimamente, però, si è diffusa (forse per seguire il "modello" inglese, non lo so) questa idea che l'apolitica, sia la vera connotazione del punk e più precisamente dello STREET PUNK. Agli inizi della mia esperienza nella scena street, non ci facevo caso, però a mano a mano che passava il tempo iniziai a conoscere meglio la gente che mi stava intorno e le loro "compagnie". Così feci la bella scoperta, che una stra grande maggioranza delle persone che componevano la scena, frequentavano (e frequentano) esponenti della estrema destra italiana (boneheads e nazi punk), gente che odio e che vorrei eliminare fisicamente, essendo degl’ingranaggi di quella macchina infame che è lo Stato. Questa scoperta non mi fu propriamente gradita. Da quì la nascita di alcuni dubbi sulla continuazione del mio percorso, nella scena street punk. Il colpo di grazia mi arrivò l'1 giugno quando capii che nel mondo dello street punk, non riuscivo a scaricare in modo produttivo la mia rabbia. Infatti ai concerti o ai ritrovi del sabato, bevevo, anche parecchio alcune volte e finivo per stare male fisicamente, oltre al fatto che non si faceva nient'altro oltre a parlare di cazzate. Quindi quel giorno decisi di tagliarmi la cresta e di uscire dalla scena street.
Dopo, nelle settimane successive, iniziai bere, a mano a mano, di meno, ai concerti o alle uscite con gli amici, e sinceramente mi divertivo di più e stavo anche meglio con me stesso. Contemporaneamente coltivai la mia passione per la musica punk hardcore. Una musica più aggressiva, più impegnata di qualsiasi altro genere musicale. Insomma rispecchiava (e rispecchia tutt'ora) il mio stato d'animo in continua agitazione..
Arrivò Luglio. Partii per la terra dei miei parenti dalla parte paterna, la Sardegna. Ci rimasi per un intero mese dove potei riflettere a lungo sulle mie basi politiche (leggendo molto e facendo dibattiti con amici di Cagliari) e sulla mia vita. Verso la fine della mia permanenza nell'Isola, decisi insieme ai miei genitori, di fare una gita di un pomeriggio, nei luoghi dove il Capitalista Milionario Medio passa le vacanze solitamente: PORTO CERVO, PORTO ROTONDO. Lì potei osservare molti esemplari dell’uomo di successo della società.
Mi feci delle domande e mi detti una risposta: Vuoi diventare come loro? NO; Vuoi essere un arrivista proprio come loro? NO; Solitamente, in questa società, quali sono i fattori che rendono una persona "realizzata"? Un uomo ricco; un uomo che si scopa molte donne, collezionandole come trofei, non ricordando nemmeno i loro nomi e a volte anche i volti; un uomo che si diverte in feste dove alcool e droga sono normalità. Conclusi che tutto ciò mi faceva SCHIFO.
Ecco la nascita dei primi pensieri, rivolti allo "Straight Edge".
L'1 Agosto, fu il giorno in cui decisi definitivamente di diventare "Straight Edge". Lo feci per vari motivi:
1)Voglio essere sempre lucido, in qualunque occasione, sia ai concerti, sia alle manifestazioni, sia nella vita di tutti i giorni. Insomma SEMPRE.
2)Voglio vivere una vita il più possibile sana, anche se purtroppo non è del tutto possibile, in un mondo artificiale e nocivo, quale è il nostro; quindi ho deciso di chiudere con l'acool (le sigarette non le ho mai fumate, con gli spinelli avevo smesso da gennaio e comunque il loro consumo era prevalentemente indirizzato ai concerti e raramente)
3)Il sesso occasionale mi fa schifo, perché dando molta importanza all’individuo, soprattutto a me stesso, non riesco a concepire come ci si possa far usare, in modo consenziente, concedendosi solo per raggiungere il piacere sessuale, l’orgasmo. Come rifiuto questa società alienante, le sue leggi e i suoi meccanismi, rifiuto il sesso occasionale e promiscuo. Non intendo essere il dildo umano di nessuno. 
4)La droga (anche l'acool e il fumo sono inclusi) è un'arma del potere, per lobotomizzare le persone e renderle una massa di coglioni. La droga ti fa sopportare la merda che si ingoia tutti i giorni. Appiana ogni tipo di dissenso e resistenza. Basti pensare a come fecero i coloni americani a comprare la dignità dei pelle rossa, con il whisky o come lo Stato italiano stroncò i movimenti del ’68 e ’77 con ondate di repressione spietata ed eroina.
5)Le droghe sono un fattore di omologazione, che ti fanno accettare dalla società e dai suoi componenti. Io non intendo fare parte di questa società, basata anche sullo svago continuo, e non mi interessa minimamente far parte della massa, quindi rifiuto i suoi “divertimenti” e ne trovo di alternativi, più sani e costruttivi decisamente.                                                                                 6)Approvo la visione ottimistica e di reazione al sistema, che è presente nello stile di vita (e movimento) Straight Edge. Sono stufo di vedere i soliti punk che si lamentano del sistema e poi si autodistruggono a colpi di litri di birra. E' ora di reagire, cazzo. BASTA con sta visione pseudo nichilista della vita !
7)L’alcol e il fumo non sono cruelty free, quindi da vegano e condividendo i principi di liberazione animale e della terra, ho dei motivi in più per non assumere quelle sostanze. Queste ultime per la maggior parte sono testate ogni giorno su animali innocenti, “colpevoli” solamente di far parte di una specie diversa da quella umana dominatrice. Inoltre la gran parte delle birre non sono nemmeno vegane, visto che contengono sostanze di origine animale (come la colla di pesce).
Queste sono le mie motivazioni per cui ho fatto questa scelta, spero di non avervi annoiato (anche se è probabile ).

Concludo con:


(I) Don't smoke,
(I) Don't drink,
(I) Don't fuck,
At least I can fucking think.

I can't keep up,
I can't keep up,
I can't keep up,
Out of step with the world.

Listen,
This is no set of rules,
I’m not telling you what to do,
All I’m saying is I’m bringing up three things,
That are like so important to the whole world,
That I don’t identify as much importance in,
Because of these things,
Whether they are fucking or playing golf,
Because of that I feel.

I can't keep up,
I can't keep up,
I can't keep up,
Out of step with the world.

Cashing in...

16/09/11

END:CIV - resist or die

Ripropongo a chiunque sia interessato all'argomento ecologista questo documentario che ho visto ieri sera e mi è piaciuto particolarmente sia per i toni sia per quello che viene detto.
Consiglio la visione di questo filmato in lingua inglese sottotitolato in italiano a chiunque, meglio se con un infarinatura di base però, per meglio comprendere alcuni concetti.
Vi sono parecchi spunti interessanti, magari non tutto è condivisibile ma è da guardare e da riflettere.

Qua il sito ufficiale dove poter trovare maggiori informazioni.

13/09/11

Welcome Into My Carcass - Welcome Into My Carcass

I Welcome Into My Carcass erano un gruppo di amici (o meglio, qualcuno amico qualcuno conoscente qualcuno neanche tale) che suonavano fino a circa l'anno scorso, ormai purtroppo sciolti.
I loro ascolti sono molto vari, dal rock'n'roll all'elettronica, dall'hardcore al black metal allo sludge allo stoner al doom e via così, e direi che si sente decisamente parecchio in questo disco.
Copertina che racchiude già in sé l'essenza del disco, delirio puro.
Cover 7" per il disco, anche se si tratta di un CD in realtà, e non di un vinile, cosa che avrei preferito, ma vabbè, ci sta lo stesso.
Il disco parte con Monomano che mette subito in chiaro le cose, parti elettroniche, testi spettacolari, riff di tutto rispetto, voci decisamente varie, parti più lenti con parti più veloci.
Parte Alpha & Omega con un riff di inizio che mi fa eiaculare più o meno ogni volta che lo sento, a seguire parte con coro e parte "hardcoreggiante" (da prendere molto con le pinze il termine) e poi parte doom, finale ancora veloce.
Ode Al Suicidio quindi, la più lunga, inizio quasi niu medal, parte più veloce e molto vecchia scuola a seguire, dopodiché si passa per una parte a protagonista la voce e quasi jazzata sotto, parte psichedelica e di ampio respiro (azz come parlo bene) per finire.
Si arriva dunque all'ultima canzone, Il Vampiro, che parte con un arpeggio distorto, continua crescendo di intensità e velocità fino a tornare ancora ad un arpeggio questa volta più psichedelico. Si conclude con una parte più tirata con riff a note singole seguito da riffone più pesante di origine capellona e ancora la parte tirata.
Chiedo scusa ai Welcome e a chi legge perché descriverli decentemente è impresa decisamente ardua, quindi fanculo, ascoltali e non rompere il cazzo.
E mi spiace per te se non li hai mai visti in concerto.
Trashy sentiteli, non mi ricordo se te li avevo già fatti sentire o no.


Tracklist:

1- Monomano (2:27)
2- Alpha & Omega (3:59)
3- Ode Al Suicidio (7:53)
4- Il Vampiro (5:24)

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Contro Quel Treno...

Pelle d'oca per questo comunicato, davvero bellissimo, pubblicato su indymedia italia


CONTRO QUEL TRENO...

Siamo arrivati da tutta Italia e da larga parte d’Europa. Ci siamo incontrate qui, sulle montagne della Val di Susa, abbiamo condiviso un piatto di pasta, l’ultimo sorso di vino o del maalox. Condiviso con naturalezza, con amici fraterni o persone perfettamente sconosciute – fino a ieri. Da Milano, Roma, Stoccarda, Parigi, Zurigo, Bilbo, Napoli o altri posti mai sentiti – fino a ieri. C’è chi non parla una parola di italiano, chi non ha mai fatto una camminata in montagna, chi credeva nelle raccolte di firme – fino a ieri. Ci siamo scambiati racconti di esperienze simili, ai quattro angoli del pianeta. Siamo tutte qui per gettarci in questa battaglia, cominciata dalle donne e dagli uomini della Valsusa, contro il progetto di treno ad alta velocità. È una lotta che ha superato l’orizzonte di queste montagne, per diventare pratica e “patrimonio” dei rivoltosi di tutta Europa. È anche la nostra lotta – oggi.

Ci scontriamo, qui, contro quello che è un perfetto esempio delle necessità di un mondo di merci e una delle punte dell’iceberg del progresso. Un progresso della tecnica che punta inesorabile verso la distruzione dell’umanità – l’umanità di ciascuno di noi.
Quello che ci ha portate qui, alcune da anni, altri da poche settimane o giorni, non è soltanto, però, la giusta solidarietà nei confronti di chi si batte con dignità contro la distruzione dello spazio della propria vita. Si tratta di un più profondo e più intimo desiderio di libertà.
Lottiamo, anche qui, come in ogni luogo, per la libertà. La libertà di ogni individuo, la mia, che inizia necessariamente là dove inizia anche quella di ciascun’altra, perché se anche uno solo è in catene, io non posso essere libero.
Si può facilmente intuirlo: la vittoria dei valsusini e dei loro solidali sul progetto del TAV va nel senso della distruzione dell’attuale sistema di dominio. Lo scontro in corso fra queste montagne pone infatti la questione di un cambiamento radicale della vita, che non può che passare per la fine dello Stato. Dire che non vogliamo il TAV né qui né altrove significa dire che vogliamo farla finita con ogni potere, statale, economico o di altro tipo. Dall’altro lato, visti gli interessi sottostanti a quest’opera, cedere sarebbe uno scacco epocale per la cricca Stato italiano-Confindustria. Una vittoria notevole per chi lotta per libertà.
Certo non sarà cosa facile, ma molti segni sono incoraggianti.

Ci sono anche, però, pesi morti. C’è chi è interessato a distinguere fra “gente della valle” e “quelli di fuori”, per poter meglio dividere, quando necessario, i buoni dai cattivi. Non si tratta, purtroppo, solo dei soliti giornalisti al soldo dei padroni. C’è chi vorrebbe circoscrivere la rivolta a modalità - ed orari - predefiniti. Chi vorrebbe prendere (e farsi prendere in) foto – ma si credono al circo, quei pagliacci? C’è chi vorrebbe questa lotta come prerogativa di un gruppo ben definito di specialisti, esperti manipolatori dei media e quindi propugnatori di uno scontro simbolico, teatrale, teso a riscuotere consenso mediatico. Tutti gli altri - la massa - sarebbero ridotti ad un gregge da portare a passeggio durante le manifestazioni. C’è chi vorrebbe una resistenza pacificata e civile. Delle “azioni” spettacolari ma perfettamente innocue. Qualcosa, insomma, che non pregiudichi la possibilità di trattare con il potere, a spettacolo finito.
Con costoro non abbiamo nulla da spartire. Non siamo civili, non siamo pacificate, non resistiamo, ma attacchiamo cercando di fare male al nemico. Non abbiamo nulla da difendere, ma una vita - la nostra vita - da strappare ad uno schifoso destino di dominio. Quello per cui ognuna di noi si batte non è circoscrivibile, non è rappresentabile. Non avrebbe nessun senso, visto in TV.

Se è un mondo nuovo che portiamo nel cuore, quello che abbiamo vissuto, che stiamo vivendo quassù ne è un’intuizione feconda. Un’intuizione che a sprazzi vediamo divenire realtà, nei piccoli gesti quotidiani così come nei grandi sogni. Nel cibo che non ha un prezzo, nelle pietre che volano o passano di mano in mano fino alla prima fila, nelle frombole che girano, nel regalare la maschera prima di andare via anche solo per qualche giorno, pensando al compagno senza nome che ti ha preso per mano quella notte in cui, distrutto dai gas, eri perso sul sentiero…
Tutto ciò non è soltanto un momento dirompente, ma una pratica che continua, che diviene esperienza condivisa e segna, con l’intensità che l’insurrezione sa toccare, la vita di ciascuno. La vita diventa insurrezione…

La scintilla che ciascuna di noi porta dentro viene ravvivata da questi incontri complici, dal ritrovare chi non si vedeva da tempo, dai nuovi legami, da questo vortice di rabbia e amore, turbinante, imprevedibile e creatore come la vita stessa.
Tornando alle nostre case, alle città da cui veniamo, ci portiamo dentro la consapevolezza che qualcosa sta cambiando - che siamo noi a farlo cambiare, proprio ora.
Che dalla Valsusa la rivolta si propaghi. I motivi contingenti sono tanti, ma la tensione che anima ciascuna di noi è la stessa.
Che in tutta Europa divampi il fuoco che ci brucia dentro e che ci ha portati qui.
Che del vecchio mondo non rimanga che cenere.

E nel fuoco l’amore.

… PER LA LIBERTÀ!



A Sarà Düra!

12/09/11

Hungry Like Rakovitz / O - Split 7"


Split targato 2011 per gli Hungry Like Rakovitz (di Bergamo, già noti per il disco bomba HolymosH ) e gli O (di Biella, che sono gli ex Deprogrammazione, bombazze pure loro) rubato infamemente a loro, che sono copro-duttori.

Il disco ha una grafica davvero fighissima a cura di "Clementine" con un cervo in primo piano, con le corna che proseguono nel retrocopertina. I miei complimenti "Clementine" <<braaaava "Clementine">>.
Mi sento prima la parte HLB, si tratta di un misto tra grindcore, black metal, con parecchie dissonanze, qualche cambio di tempo, qualche influenza HC e qualche influenza rock'n'roll (non evidentissime però). Il ritmo è serrato e sono frequenti i blast beat. Mi piace parecchio la voce. Le migliori, a mio avviso, Stop Walking You're Dead, che mi ricorda, per certi versi, i Faith No More di The Real Thing; These Hands Aren't Made For Pray (che a dirla tutta basterebbe già soltanto il titolo per amare sta canzona).
Gli O invece sono una badilata in faccia, forse anche peggio degli HLB. Grindcore/black metal con blast a tutto spiano, urlato misto ultracattivo misto classico black metal, a tratti parlato, a tratti più raw. Alcune influenze metalcore e hardcore si possono notare, soprattutto nella prima canzone. Ritmi serrati anche da questo lato. Il cantato in italiano risalta decisamente tanto le canzoni. Si, figa anche questa parte.
Testi contro tutto e tutti per gli HLB, testi più introspettivi per gli O.
Un disco decisamente figo, non il mio genere preferito ma, come si suol dire, propedeutico e di facile ascolto, lo consiglierei ai non udenti e ai fantastici 4, e anche agli stronzi che si godono (Vecchia, amami) le badilate in faccia urlate veloci e blablabla e blablabla.


Tracklist:

Hungry Like Rakovitz side
1- Stop Walking, You're Dead
2- There Hands Aren't Made for Pray
3- Mombious Hibachi (The Melvins)
4- Nice To Kill You
5- Stammen Fra Taarnet (Burzum)

O side
1- Inestinto
2- Come il Buio

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Straight Edge - Motivi Di Una Scelta - 4

Giro la scena musicale e politica ormai da un po' di anni, e ne ho viste di cotte e di crude. Mi sono anche accorto che oltre a parecchi pregiudizi c'è pure molta ignoranza sul movimento straight edge e/o sulla scelta di vita "drug free" e sulle motivazioni, in particolare, che possono portare ad una tale scelta, proprio per questo ho deciso di pubblicare alcuni testi riguardanti questo argomento, i MOTIVI DI UNA SCELTA, alcuni tratti da un opuscolo che ho in casa, che si chiama "A Commitment For Life" che tratta proprio l'argomento straight edge, alcuni scritti da conoscenti amici o anche da me stesso, chi lo sa, non metterò le firme.

"Alcune ideesono velenose.
Ti fotteranno.
Distruggeranno la tua vita.
E ti faranno sentire solo ed alienato.
Stai attento.
Le idee sono mortali."

Riportare alla mente il perché mi ritengo straight-edge è come percorrere una strada della durata di quasi dieci anni. Mi rendo conto, pensandoci ancora più profondamente, che le origini che hanno portato a definire me stesso per quello che sono vengono anche da qualche anno prima. Sono uno di quelli che gli Erode definirono in una loro canzone come "generazioni cresciute tra la strada e la ferrovia". La periferia era quella "mortale" di una grande città come Roma, "mortale" per tanti motivi: assenza di strutture, scuole fatiscenti "affogate" nel cemento, poca gente disposta ad occupare uno stabile, presenza massiccia di forze del disordine spesso più collegate che mai ad ambienti malavitosi (il crimine paga... e paga meglio dello Stato quando sei un carabiniere di periferia...).
La sensazione era quella tipica di ragazzi/e abbandonati/e alla volontà di chi decide e sancisce che vivi ai margini e che come tale vieni considerato, un emarginato. Pian piano cresci e fai le tue scelte avendo due possibilità, o vivi in strada (con i suoi pro e contro...) e cresci come tale o ti fai la tua gioventù tranquilla neglio scouts di quartiere, specchio riflesso della cultura falsamente buonista, di fatto elitaria e borghese dettata dalle chiese che infestano la città in cui vivo. Io un po' per desiderio, un po' perché di famiglia atea, ho preferito la prima via. Lungo questa sono cresciuto diventando in parte quello che sono oggi con il mio piccolo bagaglio di esperienze e di idee. Le storie sono quelle comuni a molti forse, storie di quei ragazzi che sono cresciuti nelle periferie delle grandi città a cavallo tra gli anni '80 e '90, che hanno semplicemente vissuto, si sono scontrati e qualche volta sono rimasti sull'asfalto. Il problema principale del mio quartiere era la droga, l'eroina prima di tutto, districarsi nei giardini o tra i colonnati di cemento in mezzo a moltitudini di siringhe usate diventava anche un "passatempo" quando si era un po' più giovani. Poi quando si cresce cambiano le cose, si affacciano altre situazioni, altre problematiche, ma la droga resta e qualche volta si porta via anche qualche tuo amico. In quel periodo avevo già le mie idee, non sono mai stato una persona eccessivamente "oltre" riguardo il consumo di determinate sostanze che fossero droghe o alcool. Le vicende che mi hanno toccato da vicino e mi hanno cresciuto hanno avuto un ruolo rilevante. Lo straight edge innegabilmente è arrivato con la musica, prima il punk, poi l'hardcore, incominci a fare delle considerazioni e qaìualche prima conclusione saltò fuori. Vecchi concerti che lasciano il segno come quelli dei By All Means, dove ancora si sentiva la sensazione sincera di avvenimento che non erano solo musica ma anche e soprattutto motivo di riflessione e di dibattito!
La cosa più bella che sento anche ora è il fatto che, quando ho stabilito di esserlo, e di sentirlo parte integrante delle mie idee, non ho dovuto chiedere il permesso e non ho dovuto render conto delle mie idee a nessuno. Il concetto primo che era proprio del mio essere straight edge era innanzitutto la semplice libertà di esserlo, questo mi spinge tuttora a definirmi tale. Non ho mai pensato che fosse un altro ennesimo fenomeno elitario, frutto della vasta miriade di sottoculture finto alternative, bensì una delle chiare espressioni di opposizione ad un sistema che ancora oggi rifiuto. In una società dove il consumismo diventa un valore ed il benessere economico un punto di arrivo, l'uso massiccio di droga, alcool e farmaci diventa un "appellativo", un modo per uscire dagli "schemi", per trovare una maniera diversa di vivere una vita che il presente ti sbatte in faccia senza pietà ed il futuro ti prospetta "uguale" fino alla fine. Le scelte, quelle di tutti i giorni, influenzano la nostra vita ed anche quella di altri, ho scelto di diventare straight edge non solo per me stesso. L'ho concepito prima di tutto come uno strumento di liberazione dalla triste routine ideologica che ci vede asserviti a "preconfezionate" idee dove i sentimenti ed i pensieri diventano come di plastica, ad uso di chi ci vuole fedeli e sottomessi alle leggi del "viver bene" secondo canoni imposti dalla politica di palazzo, dalle leggi dello Stato, dai nuovi usi e costumi dettati dai media. Quando decisi che non avrei consumato droghe o alcool ho stabilito che la mia scelta fosse prima di tutto politica, non di "stile" relazionata alle persone che ruotavano attorno a me. Dietro il consumo di droga (nella comune accezione di quella acquistata da chi spaccia per "conto di terzi" ) si cela un mercato in cui chi vuole una società senza sfruttati non può chiudere gli occhi e far finta di niente. Sostanze come ecstasy o cocaina provengono da situazioni in cui chi vive in povertà viene sfruttato per la coltivazione, la produzione ed il trasporto (le donne/ragazze usate come "corrieri" perché meno soggette a controlli sono una dura realtà). Conseguentemente a questo non posso accettare che il consumo di droghe, oltre che portare a noi stessi danno fisico, può portare ad altri danni ben maggiori. Stesso discorso ho intrapreso con il consumo di alcool industriale dove assolutamente le condizioni non cambiano! Non possiamo dichiararci contro le multinazionali, contro il loro modo di operare e poi permettere che il malto usato per le marche di birra più conosciute provenga da paesi sottosviluppati dove la mano d'opera costa poco. Qual'è quindi la differenza rispetto ad una multinazionale come la Nike o la Coca Cola?!?! A mio parere nessuna. Il discorso sul tabacco in parte si ricollega a quanto detto sul consumo di droghe; preferisco, come spesso ho dibattuto con alcune persone, "accettare" un consumo di marijuana inteso in un concetto di autoproduzione piuttosto che il consumo di tabacco industriale strettamente legato ancora una volta allo sfruttamento dei paesi sottosviluppati economicamente. Il problema è anche strettamente connesso a "lobby" che considerano il profitto come fine ultimo. Dagli Stati Uniti è da poco stata emessa l'ennesima sentenza che nega ai parenti di persone decedute per cancro ai polmoni dovuto al consumo di tabacco, un rimborso da parte della Philip Morris, anche in questo caso la mia domanda è: da che parte stiamo?!?! Come persone che concepisce lo straight edge anche come una "rivoluzione interiore" posso fare delle scelte in base a quello che reputo giusto per me stesso (non consumo droghe o alcool perché voglio mantenermi lucido e pronto a reagire), ma quando le scelte legittimano anche solo indirettamente la sofferenza altrui, allora la "rivoluzione" non può essere più solo interiore. Con la sofferenza altrui stiamo comprando un nostro "piacere" momentaneo, è un fatto che rappresenta la realtà, che piaccia o meno.
Personalmente ho sempre avuto la prospettiva di un pensiero che si potesse proporre assieme ad altre realtà (all'interno del movimento punk o skin per esempio) come una scelta concreta di opposizione politica e sociale. L'essere straight edge ha sempre rappresentato agli occhi di molti una scelta "elitaria" fatta per dichiararsi migliori di altri o per contestare scelte personali di chi vive una vita secondo abitudini differenti. Non ho mai smesso, ne mai lo farò, di dialogare riguardo questi temi con chi non la pensa come me o vede delle "sfaccettature" diverse. La mia esperienza di vita e le mie convinzioni mi portano ad agire in tal senso. Non ho preso determinate decisioni per contestare scelte personali altrui ma per comprendere che in diverse realtà è necessario prendere coscienza e non perderò mai la fiducia in questo. I miei migliori amici non si definiscono straight edge, ma la percezione che ho di loro, è di persone che possono contribuire, come sto cercando di fare io, a cambiare una parte di cose che costituiscono la dura realtà dei fatti in una società di diseguali. Una definizione, anche se ropria per il sottoscritto, non stabilisce come forzatamente diverso un percorso di lotta altrui se questo è comune al mio, si può essere "accomunati" anche senza una semplice definizione. Questo è anche quello che sento mio nelle battaglie di tutti i giorni, dove soltanto attraverso il superamento di barriere "mentali" si potrà arrivare ad ottenere qualcosa di concreto.
Distruggere per poi ricostruire, questo è quello che mi viene in mente pensando allo straight edge, so che non è facile da immaginare, ma la profonda coscienza politica che sento a tal proposito mi porta a pensare a questo, a stabilire che è necessario arrivare a comprendere che non possiamo chiudere gli occhi pensando che riaprendoli le cose saranno cambiate. Il cambiamento può partire solo da noi e può essere soltanto radicale. Il compromesso è un termine che non mi si addice e che non penso si addica a chi aspira a dei cambiamenti sociali e concreti. In questo senso considero lo straight edge un punto di partenza, n momento per stabilire che ci sono delle lotte che vanno intraprese. Tali lotte coinvolgono chiunque abbia sentimento e volontà di capire che la liberaione non può essere un concetto astratto ma deve inserirsi in un quadro di libertà totale (non solo umana ma anche animale e della Terra). Ho speranza un giorno di poter avvistare un punto di arrivo, vorrà dire che qualcosa di concreto è avvenuto. Sono straight edge perché non amo giustificare e non amo delegare. 

Gli Uomini Hanno Più Paura Di Vivere Che Di Morire

Lo scritto che segue è l'introduzione al libro di Miguel Amoros La città totalitaria , a cura di Nautiluss, settembre 2009, l'ho trovato molto interessante, a voi la lettura.


La creatività, la varietà d’interessi, il senso di appartenenza al contesto in cui si risiede, la vitalità personale sono caratteristiche che determinano la qualità della vita delle persone. È su questi presupposti che le persone orientano, per quanto possibile, la propria esistenza, intuendo che se non sono in grado di esprimere queste peculiarità in modo pieno e soddisfacente non esiste alcuna possibilità di qualità della propria vita e, di conseguenza, di quella collettiva.
Ma non è cosa facile riuscire a raggiungere questi obiettivi. La vitalità personale è messa a dura prova dal lavoro (che lo si abbia o meno), dalla vita routinaria, dai trasporti, dalle condizioni abitative, dalle caratteristiche ambientali; la varietà di interessi è per lo più orientata e limitata alla fruizione di spettacoli, di oggetti da acquistare; il piacere di agire per un interesse comune è frustrato da una partecipazione a progetti di trasformazione sociale scarsa e poco efficace; la creatività, il fare, fatica a trovare piena espressione, inibita da leggi e regolamenti che ne limitano o impediscono lo sviluppo o indirizzata verso hobby e bricolage. Tutto concorre, nella vita quotidiana, a frustrarne la pienezza, a ingabbiarla, contenerla, incanalarla, lasciando spazio soltanto a piaceri atrofizzati e desideri ridotti al minimo indispensabile. L’inquietudine, l’isolamento e la solitudine dilagano; gli uomini hanno più paura di vivere che di morire.


Tutto ciò si evidenzia con maggiore chiarezza per chi vive in ambiente urbanizzato, città, metropoli o megalopoli che sia. Nelle città la maggior parte delle persone non riesce a vivere come vuole; l’ambiente urbano, così com’è, non permette che nascano e si sviluppino le loro personalità; è inadatto a soddisfarne i bisogni, organizzato com’è a vantaggio di qualcos’altro.
L’attività di ognuno, che sia lavoro, uso del tempo libero, dormire, cucinare, studiare, eccetera, è di norma organizzata in spazi che solo in minima parte possono essere creati, modificati e gestiti da chi li abita. Gli ambienti sono concepiti in modo tale che l’abitare sia funzionale non alla vita di ciascuno, ma agli interessi di persone estranee ad essa. Così la scuola è costruita primariamente per educare alla disciplina, la fabbrica o l’ufficio per creare profitto, i condomini per spezzare la socialità, il cubo in cui viviamo per ammansirci; difficilmente possono essere modificati.
Se si vuole cambiare qualche cosa nella propria casa, si deve chiedere il permesso a qualche autorità.
Regolamenti edilizi e burocrazie di ogni genere hanno criminalizzato ogni intervento creativo all’esterno, ma anche all’interno delle abitazioni. Nell’intimo delle mura domestiche la possibilità di gestire lo spazio si limita a poche cose, per lo più intese a isolare all’interno delle quattro mura le persone che ci abitano. L’unico ambito in cui si ha il permesso di organizzare la propria casa è confinato alla disposizione dei mobili, alla tinteggiatura delle pareti: tutto il resto è precluso, dove si abita e come si abita sono sotto stretto controllo.


Le istituzioni economiche, amministrative, politiche, sociali, culturali sono le dirette responsabili della qualità dell’esistenza di ognuno di noi. Il contesto in cui la nostra vita si svolge non ci appartiene; sono loro che organizzano il lavoro, la gestione territoriale, il controllo e la sicurezza, il sapere e la ricerca e, per come funzionano le cose, è sin troppo facile dimostrare come le persone si sentano estranee alla loro visione e ne subiscano le conseguenze. Che le istituzioni facciano parte del problema e non della soluzione è sentimento molto diffuso. In questo i valori del neoliberismo hanno svolto un ruolo decisivo. Applicati in economia hanno fatto in modo che molte prerogative dello Stato si ponessero in ritirata. Certo non quelle legate al monopolio della violenza e della legge, ma per l’educazione, la salute, i trasporti, la comunicazione, le cose sono molto cambiate: il monopolio dello Stato è stato fortemente intaccato e con esso il prestigio di tutto quello che si identifica come pubblico. Il disprezzo verso il ceto politico, la crescente sfiducia nelle istituzioni, il desiderio di essere governati (almeno in Italia) più da un capo che da un parlamento, il proliferare di iniziative legate al territorio che escludono i rapporti con i partiti e i sindacati, la diserzione del seggio elettorale sono solo alcuni esempi che mostrano come questa convinzione non sia affatto circoscritta ad ambiti ristretti. L’immaginario che accompagnava le istituzioni è stato distrutto dalla politica spettacolo, il “prestigio” del loro ruolo umiliato da lobbisti, portaborse, affaristi; i valori che rappresentano languono o agonizzano in buona compagnia di ideologie inadatte a interpretare la realtà del XXI secolo. Inadatte perchè leggono il presente usando categorie sociali, politiche, culturali che non esistono più se non come riferimento mitico o icona; finite anch’esse nel calderone dello spettacolo, hanno cambiato di senso e di valore. Lavoro, comunicazione, risorse energetiche, concezione dello Stato sono fattori in veloce mutamento, frutto di una globalizzazione di cui si stenta a prendere piena consapevolezza continuando, nell’affrontarli, ad affidarsi a modelli di governo, di trasformazione o di radicalismo non più adatti a interpretare e risolvere alcun problema e tanto meno immaginare un qualunque futuro. L’indeterminatezza, l’usura, l’inutilità dei mezzi pratici e teorici usati per affrontare la realtà non producono altro che sfiducia, immobilismo e frustrazione. Finora il vuoto è stato colmato da un ethos consumistico tanto sfrenato quanto consolatorio, indirizzato e guidato da un apparato massmediatico di prim’ordine – il vero cardine del sistema – creato appositamente per veicolare la trasformazione di tutti i rapporti sociali in spettacolo e valorizzare come merce ogni aspetto dell’uomo e della natura. Per tutto ciò le istituzioni, ancorché democratiche, ne stanno uscendo a pezzi e anche i governati non stanno bene, impreparati come sono a subirne i colpi o a coglierne gli aspetti positivi.

In ambiente urbano questa disaffezione, questa diffidenza, se da una parte alimenta l’apatia e l’insicurezza, favorendo menefreghismo, disinteresse per il collettivo e per quello che non si considera proprio, dall’altra, per i più lucidi, offre l’opportunità di considerare e affrontare in altro modo l’esistente e, con esso, lo sconquasso provocato dalle nocività abitative, sociali e ambientali. Si sta parlando di quanti, in vario modo e con percorsi diversi, stanno aprendo prospettive di autorganizzazione, di partecipazione diretta, di sperimentazione economica e sociale, di critica, che si contrappongono ai modelli dominanti. Coloro che si muovono in queste logiche, si organizzano in modo orizzontale, distante anni luce dai modelli dei partiti di massa. I loro intenti rinnovatori sono orientati da un immaginario che nulla ha a che vedere con quello che ha guidato l’agire dei rivoluzionari delle generazioni del Novecento. Non c’è alcuna palingenesi totale, né avanguardie che la stimolino; non ci sono più – sempre nell’immaginario – né classi né masse, e neanche un paradiso in terra uguale per tutti; non c’è potere da occupare. La direzione del loro agire, con tutte le difficoltà che ciò comporta, è orientata verso la riappropriazione delle risorse fondamentali per la vita, in senso non metaforico, ma reale.

La partecipazione in prima persona e l’azione diretta più o meno pacifica – con l’apporto di una diversa consapevolezza, capace di modificare e rendere più intense le relazioni tra le persone – guidano l’iniziativa su una scala territoriale forse più limitata, ma più incisiva. Rimettersi alle istituzioni significa accettare che ogni scelta urbanistica fatta e gestita dal ceto politico in nome della collettività e del bene comune si trasformi ineluttabilmente in un ulteriore impoverimento delle libertà dei singoli. Si creano gruppi di individui disponibili a mettersi in gioco, in modo anche molto radicale, su problemi concreti e circoscritti, riguardanti il proprio territorio e la vivibilità quotidiana. Aria, tempo, spazio, piacere, terra, cibo sono sempre più motivo di conflitti e rivendicazioni. La loro mancanza, il loro degrado, l’impossibilità di goderne liberamente stanno rimodellando velocemente i valori, le idee, le paure, le prospettive e con esse i modi e le ragioni stesse del fare politica.
Sono queste le persone che possono reagire e resistere, perchè impostano la lotta contro la privatizzazione e la mercificazione dello spazio come lotta frontale, non necessariamente violenta, ma certamente coerente con il proprio sentire, autorganizzata e solidaristica, orientata a ottenere risultati tangibili e immediati in situazioni che valorizzino le caratteristiche di ognuno, rendano possibile e migliorino la qualità sociale.
Sono le persone che hanno intuito che né il mercato né lo Stato agiscono per l’interesse collettivo – tanto meno per quello dei singoli – e che si stanno orientando verso modelli che li ridimensionano o li escludono. Per loro affidarsi al mercato significa rendersi partecipi della trasformazione delle città in centri commerciali o musei a cielo aperto e chi la abita in polli in allevamento da far sopravvivere in una gabbia luccicante. Così, in modo più o meno radicale, contro il mercato praticano l’autoproduzione, la riutilizzazione dei materiali, l’autocostruzione, il baratto e il mutuo appoggio organizzato. Introducono il dono nei rapporti di scambio tra le persone; si associano in gruppi di acquisto, in attesa, magari, di potersi organizzare autonomamente creando orti collettivi in città o nelle sue vicinanze. Così, si oppongono alla speculazione edilizia, alla costruzione di edifici che trasformano la città in uno spazio espositivo per il marketing pubblicitario di banche e multinazionali, a infrastrutture ingombranti e inutili. Sono le persone che occupano le case abbandonate per abitarci o condividerne gli spazi con chi vuol frequentarle. Utilizzano le strade, i marciapiedi, le piazze, i muri, i parchi al di là delle convenzioni e dei regolamenti, sottraendole – anche solo momentaneamente – alle automobili, a un’estetica mediocre, a una tristezza uniforme.
Sono le persone che vedono nelle tecnologie – non solo quelle meccaniche, ma anche quelle informatiche, delle comunicazioni, dell’educazione, dell’amministrazione, della finanza, dell’economia – il fattore che nel giro di poche decine di anni ci ha portato dove siamo: danni umani e ambientali catastrofici.


Queste persone vengono da ambienti e culture politiche diverse, non sono ancora unite dalla consapevolezza di un agire comune, ma, come dice Miguel Amorós, il loro «obiettivo irrinunciabile deve essere la liberazione del territorio dagli imperativi del mercato, e ciò significa farla finita con il territorio inteso come territorio dell’economia. Deve stabilire un rapporto di rispetto tra l’uomo e la natura, senza intermediari. In definitiva si tratta di ricostruire il territorio, non di amministrarne la distruzione. Questo compito spetta a coloro che nel territorio vivono, non a coloro che ci investono, e l’unico ambito in cui ciò è possibile è quello offerto dall’autogestione territoriale generalizzata, cioè la gestione del territorio da parte dei suoi abitanti attraverso assemblee comunitarie».

08/09/11

KoreaPingPongAttack - PowerViolenceHardcore



Ok ok sono gasatissimo, sono recentemente venuto a sapere che i KoreaPingPongAttack torneranno a suonare si spera il prima possibile, con una nuova formazione.
Presentiamoli (noi plurale maiestatis, viva il latino) dunque.
I KoreaPingPongAttack sono un gruppo di loschi individui già facenti parte di altri loschi gruppi come i Lady Tornado e i The Infarto, Scheisse!
Ora non ricordo bene chi sia cambiato e chi siano i nuovi componenti ma non è importante, l'importante è che codesto gruppo apre gli ani e sarebbe assolutamente da vedere da laiv.
Che io sappia han fatto solo un demo in minicd che io non ho, ma che mi ha prestato la JJ (a cui ovviamente prima o poi lo ruberò).
Mi sputtano decisamente un sacco sia a sentirli che a leggere i testi che sono delle perle di idiozia e cattiveria gratuita diocan.
Musicalmente si tratta di un misto di Hardcore e Powerviolence (spè ma forse non ci si era arrivati vero?) registrato molto bene (per lo meno per i canoni del genere, si capiscono i vari strumenti eh).
Blast beat si alternano a parti più lente, qualche influenza thrash si può notare qua e la come anche qualche influenza grind/fast, doppia voce, una infest-ata e l'altra urlata, più qualche coro.
I riff non sono scontati e questa è un ottima cosa.
Arriva l'intro di Giuseppe e mi fa male la pancia a causa delle risate, l'adorazione è totale.
Forse solo accorciando qualche canzone e diminuendo le parti lente (troppe per i miei gusti) avrebbero potuto fare di meglio.
Li aspetto a concerti e soprattutto aspetto che buttino fuori qualcosa cazzo di altro, orca boia.
Gash-ad apprezzerà vivamente codesta cosa, non mi ricordo se glieli avevo passati alla fine o solo fatti sentire.

Tracklist:
1- Annamaria Senza Fronzoli
2- Bambini Che Nuotano Nel Napalmp
3- Black Ciabbats
4- Giaki Dice No, Giacobbe Pensava Di Si
5- Boia!Qualcuno Ha Mollato
6- Alta Sartoria
7- Giuseppe
8- Sentenza Anali
9- Limono Solo In Presenza Dei Miei Avvocati
10- 1984 Gli Anni Di Sandy Marton

P.S. purtroppo non ho il link del download ma lo posterò il prima possibile. Intanto enjoy something sul lorospazio

05/09/11

Straight Edge - Motivi Di Una Scelta - 3

Giro la scena musicale e politica ormai da un po' di anni, e ne ho viste di cotte e di crude. Mi sono anche accorto che oltre a parecchi pregiudizi c'è pure molta ignoranza sul movimento straight edge e/o sulla scelta di vita "drug free" e sulle motivazioni, in particolare, che possono portare ad una tale scelta, proprio per questo ho deciso di pubblicare alcuni testi riguardanti questo argomento, i MOTIVI DI UNA SCELTA, alcuni tratti da un opuscolo che ho in casa, che si chiama "A Commitment For Life" che tratta proprio l'argomento straight edge, alcuni scritti da conoscenti amici o anche da me stesso, chi lo sa, non metterò le firme.

Mi è capitato di crescere in una città medio piccola, felice nel suo isolamento culturale e nella sua provincialità. Ricordo la sera in cui ho bevuto la mia prima birra, un ragazzino come tanti in una delle sue prime uscite serali tra amici. Generalmente mi limitavo a un bicchiere di Coca Cola o un succo di fruttama quella sera mi trovavo insieme a ragazzi poco più grandi di me e che non conoscevo troppo bene. Tutti ordinarono superalcolici e birre e io feci lo stesso per non essere visto come lo sfigato di turno.
Negli anni successivi sono cambiati i giri, le compagnie e gli amici, ma il binomio uscita in gruppo + alcool è sempre rimasto. In ogni ambiente che ho frequentato ho sempre trovato abitudine normale bere alcolici (con più o meno moderazione) e strano invece rifiutarli.
Crescendo ho iniziato a pormi in maniera critica verso molte delle cose che venivano comunemente accettate (tra cui l'abitudine di bere per essere accettati o non discriminati) e ho iniziato a limitare sempre di più il consumo di alcolici.
Una sera mi trovavo ad una festa in piazza a Bologna; avevamo già iniziato a bere birra a cena e abbiamo continuato per tutta la serata. Nel caos generale, tra un concerto (pessimo) e alcuni scherzi idioti si è persa completamente la percezione della realtà e la serata è finita al pronto soccorso con un ragazzo con la faccia scorticata da una caduta sull'asfalto e un altro con un labbro rotto.
Ho ripensato un sacco di volte a quella serata e mi sono sempre detto che per la situazione che si era creata ci è andata fin troppo bene. Da quella volta ho deciso che una situazione del genere non si sarebbe più ripetuta e di lì a poco ho iniziato ad escludere completamente alcool e droghe dalla mia vita.
Ero già vegetariano da alcuni anni e conoscevo il movimento straight-edge nonostante non avessi mai approfondito veramente le motivazioni che ne stavano alla base. In quel periodo stavo anche iniziando ad eliminare dalla mia dieta i derivati animali e venire a conoscenza degli additivi usati negli alcolici e nel "taglio" delle droghe mi diede senza dubbio una spinta decisiva.
Tuttavia ho sempre considerato lo Straight-edge come un qualcosa di inscindibile con l'hardcore e quindi non vivendo ancora a stretto contatto con questo mondo non mi sono sentito di definirmi tale.
(Con questo non voglio dare nessun peso alle definizioni, concetto che propriamente non mi si addice, ma ne riconosco l'utilità pratica qundo si deve descrivere qualcosa in questi termini).
I motivi che mi hanno portato a scrivere questo testo sono principalmente due. Ritengo che in Italia la conoscenza delle motivazioni alla base del movimento sxe sia ancora, dopo tanti anni, molto approssimata. Ho sentito fare commenti tra i più disparati che definivano lo straight-edge una moda giovanile , una religione, una setta o comunque un qualcosa di vincolato da regole di condotta morale e leggi incontestabili. Con queste righe spero che venga gettata un po' di luce su questo stile di vita e che possano magari servire ad avvicinare qualcuno a questa etica di comportamento.
In secondo luogo mi preme sottolineare la connivenza tra uno stile di vita "drug free" e l'essere libertari e antispecisti. Nell'ambiente punk-hardcore ci si trova spesso a discutere su concetti che io considero elementari per finire poi a scontrarsi contro modi di pensare che ho sempre ritenuto propri di altri tipi di culture (sessismo e specismo soprattutto). Per questo mi dispiaccio a sentir parlare di anarchia o liberazione animale un carnivoro o qualcuno che fa largo uso di tabacco e droghe varie o constatare che il concetto di libertà che in molti propugnano è assai raramente esteso agli animali e a noi stessi. Il mio parere è che, a maggior ragione se si sceglie un percorso di lotta o di critica verso questo complesso di valori di sfruttamento, sia necessario mantenere uno stile di vita il più possibile al di fuori delle meccaniche di morte che esso genera ed essere in grado di poter agire con lucidità in ogni situazione. Questo non per chissà quale appello alla purezza o all'integrità del corpo ma per questioni molto più pratiche legate alla gestione razionale di situazioni difficili.
Iniziamo a concretizzare la libertà invece di discuterne soltanto.

Le azioni parlano più delle parole! 

03/09/11

Il Carcere E Il Suo Mondo - Riflessioni Per Una Società Senza Gabbie


 


Questo testo è la trascrizione della conferenza dal titolo omonimo tenuta da Massimo Passamani a Rovereto il 5 dicembre 2000. La serata sul carcere faceva parte di tre incontri sul controllo sociale e i suoi nemici. Le altre due conferenze del ciclo di incontri vertevano sulle biotecnologie e sulla criminalizzazione degli immigrati.  


***

Il carcere e il suo mondo
Riflessioni per una società senza gabbie
Qualche parola prima di entrare nell'argomento di questa sera: il carcere e il suo mondo. Innanzitutto, non sarà una riflessione di taglio storico, su quelle che sono le cause storiche del carcere, perché su questo argomento ci sono già molti libri che fanno ormai addirittura parte della normalità accademica; ci sono fior fior di tesi di laurea sul carcere, tanti testi che dimostrano il legame stretto che esiste fra la nascita e lo sviluppo del capitalismo e la nascita e la trasformazione del carcere, quindi il rapporto tra fabbrica, clinica, prigione e così via. Testi più o meno approfonditi che esistono in quantità abbondanti, talvolta piuttosto interessanti e rispetto ai quali non avrei molto da aggiungere. Quindi non è un taglio di quel tipo che mi interessa: chi si aspetta una conferenza di questo tipo penso che rimarrà deluso. E anche sul rapporto tra il carcere e la società di oggi, cioè su tutto quel sistema sociale che ruota attorno alle prigioni, anche su questo la riflessione sarà piuttosto sbrigativa, non sarà un approfondimento specifico. Quello che mi interessa, invece, è una riflessione di tipo etico, intendendo per etica un modo di essere, un modo di abitare e un modo di autodeterminarsi, cioè di scegliere gli strumenti e le finalità dei propri rapporti. Quindi un concetto di etica che assume in sé le due accezioni del termine, cioè l'etica come dimensione individuale (quell'insieme di valutazioni che ogni individuo dà circa le proprie scelte, il senso della sua vita, dei suoi rapporti, eccetera) e anche una dimensione per così dire collettiva, cioè relativa a quello spazio in cui queste scelte, queste valutazioni, questi rapporti si realizzano, si modificano. Due accezioni che coesistono nelle parole stesse che utilizziamo per esprimere questi concetti. Sia etica sia morale, infatti, rinviano a un concetto di costume, di norme sociali, di genius loci, cioè di usi legati a una determinata zona; allo stesso tempo, e sempre di più nell'ultimo secolo, il concetto di etica rinvia a qualcosa di profondamente individuale, di singolare e attinente all'unicità di ogni individuo. Questi aspetti saranno, penso, copresenti all'interno di queste riflessioni. Riflessioni piuttosto rapide, perché l'inventario delle questioni, dei problemi è molto ampio e io non ho nessuna pretesa di esaurire gli argomenti. 
Quattro punti su cui riflettere, niente di più. La domanda fondamentale, quella che tutti i vari libri eludono sempre, lasciano ai margini oppure tendono a confondere in modo più o meno efficace, questa domanda radicale suona così: se il carcere significa punizione, castigo, pena, evidentemente fa riferimento alla trasgressione di una determinata regola (infatti la punizione interviene nel momento in cui la regola viene trasgredita, violata). Ora, la trasgressione della regola rinvia a sua volta al concetto stesso di regola, e cioè a chi decide - e come - le regole di una società. Questa è la questione che i vari operatori del settore, gli esperti non affrontano mai. Questa è la questione che contiene tutte le altre e che se sviluppata fino in fondo rischia di far crollare tutto l'edificio sociale e con esso le sue prigioni. Chi decide, e come, le regole di questa società? È palese che tutte le chiacchiere che vengono raccontate sul potere del cittadino ("il cittadino, questa cosa pubblica che ha soppiantato l'uomo", diceva Darien), sulla partecipazione diretta, si rivelano sempre di più per quello che in sostanza sono, cioè menzogne. A decidere in questa società e in tutte le società basate sullo Stato, sulla divisione in classi, sulla proprietà, è una ristretta minoranza di individui i quali si autonominano rappresentanti del "popolo" e che impongono, sulla base di determinati poteri esecutivi (coercitivi), le loro regole. Questa definizione piuttosto generica fa subito notare che regola e legge, accordo e legge, non sono sinonimi. La legge non è una regola come le altre, è un modo particolare di concepire e definire la regola: la legge è una regola autoritaria, è una regola coercitiva, imposta per di più da una ristretta minoranza. Ora, è possibile concepire un modo completamente diverso per definire le regole, oppure, detto diversamente, per prendere degli accordi. Quindi, se non c'è coincidenza fra accordo e legge, la questione radicale è: come può un individuo o un insieme di individui essere punito in base a regole coercitive, quindi leggi, che non ha mai sottoscritto, che non ha mai liberamente accettato, che non ha mai stabilito? Anche questa è una domanda estremamente semplice, ma che non viene mai posta.
Ancora prima di porsi l'interrogativo di cosa significa concepire i rapporti fra individui in termini di punizione, castigo, pena; ancora prima di porsi questa domanda, bisogna chiedersi se è legittimo, giusto, utile, piacevole che un individuo, un insieme di individui, siano repressi, puniti, rinchiusi, torturati per la trasgressione di norme che non hanno mai concepito né sottoscritto. È questa la questione fondamentale a cui si tratta di trovare risposta, una risposta che è sì teorica, ma che deve farsi poi spazio nella pratica. Ora, evidentemente, nel modo stesso in cui pongo il problema in controluce si può notare come io penso di affrontarlo.
Il libero accordo è la possibilità e la capacità che vari individui, più o meno numerosi nel loro associarsi, hanno di stabilire in comune determinate regole per realizzare le loro attività, attività di cui controllano le finalità e gli strumenti. Senza questo controllo delle finalità e degli strumenti del proprio agire non esiste nessuna autonomia, che è appunto la capacità di darsi le proprie regole. Esiste allora il dominio, l'essere diretti da altri, quindi lo sfruttamento. Proprio perché questa società non si fonda sul libero accordo, quest'ultimo si sviluppa solamente all'interno di piccoli gruppi dove esiste la consapevolezza della possibilità di avere rapporti di reciprocità, di libertà, quindi senza forme coercitive; ma al di là di piccoli gruppi che, in modo conflittuale rispetto alla società, cercano di vivere in questo modo, all'interno di questo ordine delle cose non esiste una simile possibilità, perché appunto viviamo in una società fondata sulla divisione in classi, sul dominio e sullo Stato che di questa divisione in classi e di questo dominio è in qualche modo il prodotto e il garante. Allora si capirà perché questa società ha come suo centro la prigione, si capirà perché e per chi esiste questa prigione. Ed è proprio partendo da questa riflessione che si può cogliere il problema della punizione, quindi il problema del diritto e, ancor più nel concreto, di quel codice penale su cui i giudici fondano le loro sentenze che chiudono a chiave uomini e donne in ogni parte del mondo, su cui i poliziotti trovano l'autorità per arrestare, i secondini per sorvegliare, l'assistente sociale del carcere per invitare alla calma e alla collaborazione, il prete per trovare materia funzionale alle sue prediche sul sacrificio, sulla rinuncia, sulla colpa (tanto per citare alcuni di coloro che garantiscono questo sistema sociale). Partendo da questa riflessione ci si può rendere conto che all'interno della presente società il carcere è un problema ineliminabile, perché il problema del crimine, cioè della trasgressione delle norme coercitive (le leggi) è un problema fondamentalmente sociale. Per dirla diversamente: finché esisteranno i ricchi e i poveri, esisterà il furto; finché esisterà il denaro, non ce ne sarà mai abbastanza per tutti; finché esisterà il potere, nasceranno sempre i suoi fuorilegge. Quindi, rovesciando la questione, il carcere è una soluzione statale a problemi statali, è una soluzione capitalista a problemi capitalisti. Il problema del furto, cosi come di tutti quei crimini che tendono alla messa in discussione dell'ordine sociale, quindi le rivolte, le resistenze, le lotte insurrezionali, eccetera, ecco tutti questi problemi sono legati alle radici stesse di questa società. È evidente che siamo ancora nell'ambito delle domande. Le risposte possono venire soltanto da una pratica sociale di cui è possibile delineare solo e soltanto alcune prospettive. Proprio perché parlare di questi problemi cosi impostati non ci permette di uscire da quel quadro sociale al cui interno soltanto essi hanno un senso. 
La storia del carcere si lega profondamente alla storia del capitalismo e dello Stato, e quest'ultima si lega profondamente a tutte le resistenze, a tutte le lotte, le insurrezioni e le rivoluzioni da parte degli sfruttati, degli spossessati di tutto il mondo per sbarazzarsi -talvolta con slanci di libertà reale e talaltre con ritorni a repressioni ancora peggiori, ancora più brutali -, per sbarazzarsi del capitalismo, del denaro, della proprietà, della divisione in classi, dello Stato. Negli ultimi due secoli, perché sostanzialmente l'origine del carcere per come lo conosciamo noi non va più indietro nella storia (non che prima non esistesse il problema dell'esclusione, del bando dalla società, o addirittura della tortura e dell'eliminazione fisica, però il luogo concreto, spazialmente definito che è il carcere non esisteva) il problema delle prigioni è stato presente in tutti i movimenti di emancipazione, di trasformazione radicale della società. È sempre stato presente nelle riflessioni e anche negli argomenti di propaganda, i quali si potevano riassumere in questo modo: se distinguiamo due tipi di crimine, (si trattava di una distinzione per amore di chiarezza, perché in realtà il contesto sociale e le sue trasformazioni sono sempre molto più complessi, molto più articolati e quindi molto più difficili da catalogare), quelli che potremmo definire di interesse, cioè legati al denaro, alla necessità all'interno di questa società di avere denaro per sopravvivere, e quelli passionali. Ora, è evidente -argomentavano questi rivoluzionari - che i primi, cioè quelli di interesse, sono profondamente legati a questa società: per cui o si immagina un mondo in cui non ci sono alcuni che accaparrano gli strumenti, le ricchezze e tutto quello che è necessario per vivere e gli altri che, spinti dal bisogno, sono costretti o a prostituirsi come lavoratori salariati o ad allungare le mani per afferrare illegalmente (dato che la legge sta dalla parte dei proprietari) le ricchezze, oppure non ci sarà mai soluzione. Per quanto riguarda invece i crimini cosiddetti passionali, che poi sono quelli più sventolati dalla propaganda dominante per giustificare il carcere: anche quelli, come gli stupri, che più offendono la coscienza di ciascuno; anche questi crimini, se noi li guardiamo più attentamente, sono profondamente legati alla società in cui viviamo, nel senso che sono il prodotto della miseria affettiva, compresa quella sessuale, dell'assenza di rapporti appaganti nella vita quotidiana, della miseria di rapporti umani in generale; sono il prodotto di tutta quella tensione, di quello stress, di quella rabbia che non vengono espressi e che ritornano, proprio come un ospite indesiderato, sotto forma di tic nervosi, sotto forma di presenza inconscia, di violenza stupida e gregaria. Anche questi fenomeni - che sono poi quelli utilizzati sempre per rendere necessario, nella mente di tutti gli sfruttati, il carcere con tutta la sua struttura sociale, che vengono utilizzati come spauracchio per far accettare la presenza dell'autorità e dell'ordine poliziesco - sono dunque profondamente legati a questa società. Negli argomenti di quei vecchi compagni, una società senza Stato e senza denaro, materialmente e passionalmente ricca, avrebbe eliminato d'ufficio i cosiddetti crimini di interesse e ridotto sempre più i cosiddetti crimini passionali. E noi? 
È evidente che il concetto di trasgressione, di violazione delle norme rinvia a tutto quel pensiero filosofico, morale, giuridico, politico e così via che si è costruito all'interno di questa società e che per difendere questa società si è sviluppato, articolato, definito. Parlare di carcere, insomma, non significa soltanto parlare della regola e quindi porsi la domanda radicale che tutti eludono: chi la stabilisce, in base a quali criteri, che cosa fare per affrontare un problema come quello della sua trasgressione. Oltre a questo, bisogna chiedersi anche cosa significa proiettare un modello di convivenza, di umanità rispetto al quale poter giudicare non ortodosso, bollare in quanto ortopedicamente deviante o moralmente inaccettabile ogni comportamento, ogni scelta, ogni decisione che non si rifaccia, che non si assoggetti a quel modello. Ho usato il concetto di "ortopedia" sia perché è un concetto preciso nella riflessione dei vari criminologi, dei vari esperti in devianze, sia perché anche etimologicamente è un concetto interessante. La necessità di far camminare rettamente (questo significa "ortopedia") rispetto ai percorsi che sono stati stabiliti dalla società, di costringere alle sue strade, alle sue mete e ai suoi ostacoli tutti gli individui, è la fonte inesauribile di tutte le gabbie. Problema della regola, dunque, problema del modello che viene ritenuto superiore agli individui concreti, che è anche un modo, questo, di crearsi recinti nella testa, per rassicurarsi di fronte all'aspetto multiforme e quindi pauroso della vita sociale. Questo modello agisce, ad esempio, nel momento in cui determinati comportamenti, che offendono profondamente il senso di umanità di ciascuno, vengono definiti inumani: basta pensare che in tedesco inumano e mostro si esprimono con la stessa parola (Unmensch). Tutto quello che è mostruoso viene definito inumano per tenerlo lontano da sé; determinati atti, determinati comportamenti sono bollati come inumani, oppure - e questo è il versante penale, giuridico - criminali. 
All'interno di questa società il carcere non va visto come qualcosa di occasionale soltanto perché, in fondo, parlando della situazione italiana, su 55 milioni di abitanti i carcerati sono circa 50 mila, una cifra, questa, che potrebbe sembrare irrisoria rispetto a quello che sto dicendo. In realtà, il carcere è un dato centrale, fondamentale di questa società; esso è presente in tutta la società e non va confuso soltanto con quegli edifici che fisicamente rinchiudono determinati uomini e determinate donne. Perché è un perno fondamentale di questa società? Proprio perché la repressione di cui il carcere è l'espressione più radicale non va vista come qualcosa di distinto dal consenso forzato, da quella pace sociale su cui si fonda l'ordine presente delle cose, intendendo per pace sociale non la convivenza pacifica delle persone, ma la convivenza pacifica tra sfruttatori e sfruttati, tra dominatori e dominati, tra dirigenti ed esecutori. Ecco, la pace sociale è questa condizione che viene prodotta da organi ben precisi come la magistratura e la polizia, ma allo stesso tempo da tutte quelle istituzioni - siano esse il lavoro, la famiglia, la scuola, il sistema dei mezzi di comunicazione di massa, eccetera - che rendono impossibile o estremamente difficile ogni pensiero critico e quindi ogni volontà di trasformare radicalmente la propria vita; in breve, quella trama di rapporti, di parole e di immagini che presenta l'attuale ordine delle cose non come un prodotto storico, e dunque, come tutti i prodotti storici, modificabile, ma come un dato naturale che nessuno ha la possibilità né il diritto di mettere in discussione. Quindi, se noi vediamo il carcere (e, più in generale, la repressione di cui il carcere è il modello) come il prolungamento di quelle norme sociali che quotidianamente ci impongono una sopravvivenza sempre più priva di senso, allora vediamo che il carcere è uno spettro che viene agitato contro gli irrequieti che potrebbero in un determinato momento della loro vita decidere di farla finita con questo modo di sopravvivere, con questo modo di stare legati in società, e battersi per conquistare una libertà, una dignità differenti. Questo spettro viene continuamente agitato contro gli occhi capaci di sguardi ulteriori, di slanci oltre le gabbie sociali. 
Purtroppo - ed è questo il paradosso della società in cui viviamo - questi occhi sono pochi, perché già questo desiderio di ribellarsi è uno sforzo, uno slancio che si conquista a fatica, perché a vincere, spesso, non è neanche la paura del castigo, paura che tocca solo quelli che per un motivo o per l'altro si pongono concretamente il problema di trasgredire le regole in un modo che non conviene a questa società, per tutti gli altri basta quel ricatto continuo e incessante che è il vivere civile, il vivere sociale con tutti i suoi obblighi e le sue prestazioni. Ancora prima di questa paura della punizione, cioè, la repressione preventiva è l'incapacità di immaginare una vita diversa: non avendo un'alternativa - non come modello sociale, ma come progetto di vita, di modificazione dell'esistente -; non avendo questa alternativa nella testa, non rimane che accettare questo mondo. Infatti attualmente la propaganda dominante, per farci accettare questa società, non usa quasi più gli argomenti dell'ordine giusto, accettato in base ai sacrosanti principi della proprietà, del diritto, della morale (la loro, evidentemente), ma dice più semplicemente e senza fronzoli: non esiste nient'altro. Quindi, visto che questo altro non esiste, perché o è già finito nella spazzatura della storia o è impraticabile, allora non rimane che rassegnarsi e accettare questa società. Questa condizione più che essere una condizione di consenso, intendendo per consenso un'assentire consapevole, diretto e libero a determinate situazioni, a determinati accordi, è quella di un consenso per difetto, cioè di un non-dissenso: si vive in questa società semplicemente perché non si riesce a immaginare e a praticare qualcosa di diverso. (E questo ci lega nuovamente al discorso iniziale sulla differenza tra libero accordo - condizione di reciprocità - e legge - condizione di gerarchia). Tutto quello che questa società spaccia per Progresso,per meta da raggiungere, è sempre più manifestamente impresentabile, perché i disastri prodotti da questo modo di vita (sotto forma di oppressioni, di affamamento, di catastrofi mascherate come naturali ma in realtà profondamente sociali) sono sotto gli occhi di tutti. Il potere stesso, questa megamacchina in cui la politica, l'economia, la burocrazia, il comando militare si confondono, punta oggi su un discorso catastrofista: il mondo va verso disastri consistenti, però, visto che siamo noi ad averli creati - ci dicono i suoi esperti pagati per esserlo -, siamo anche i soli a possedere le chiavi per risolverli. Cosi, all'interno di questo balletto immobile fra disastri sociali e finti rimedi, a loro volta portatori di futuri disastri, l'immaginazione viene congelata, colonizzata; nessuna alternativa è possibile e quindi tutto procede per consenso in negativo, per non-dissenso. Però evidentemente non tutti sono d'accordo con queste regole. 
Se prendiamo alla lettera l'ideologia dominante, quella liberale, ci viene detto che il vivere sociale è il risultato di un contratto stipulato non si sa bene quando né da chi, comunque da generazioni passate, rispetto al quale le generazioni presenti non possono far altro che adeguarsi: già questo è piuttosto indicativo del modo di concepire gli accordi, stabiliti una volta non si sa bene da chi e che poi dovrebbero legare (la legge, appunto) per il resto del tempo tutte le generazioni future dell'umanità. Comunque queste scempiaggini sono state raccontate anche da filosofi piuttosto accreditati e quindi si dice, questo si impersonale che è tutti e nessuno, che questa società è il frutto di un contratto. Ora, è evidente che quando esistono milioni di individui (perché bisogna sempre ragionare con un occhio attento al pianeta e alla storia, dal momento che il potere vuole spingerci a ragionare in un eterno presente che non ha nessun riferimento con il passato e soprattutto ci chiude gli occhi su come funziona il modello democratico su scala planetaria) a cui si nega persino il minimo vitale, questo contratto sociale è una presa in giro assassina. Quando si parla di democrazia, non bisogna tener presente solo la televisione, gli acquisti di natale, le nuove auto e le conseguenze che tutto ciò comporta a livello sociale e anche psicologico; bisogna tener presente anche i campi di lavoro forzato in Indocina, l'affamamento delle popolazioni del sud del mondo, le guerre sparse sul pianeta, perché tutto ciò è solo la periferia delle nostre cittadelle democratiche. Lo stesso ordine capitalista democratico che assicura a determinati sudditi, in vista di un determinato sviluppo politico, economico, burocratico, un certo modo di vivere, ad altri impone di marcire nelle riserve, nei ghetti. Se ci poniamo il problema di prendere alla lettera quest'ideologia del contratto sociale -di cui le varie teorie ortopediche sono il semplice corollario - è evidente allora che per chi non ha di che vivere, per chi non è nemmeno considerato cittadino, perché non ha i documenti in regola, perché non lo fanno entrare alle frontiere, per chi è costretto in una condizione di clandestinità, di invisibilità sociale, per donne e uomini come questi (e oggi sono milioni) il presunto contratto è stato violato per sempre, dal momento che non garantisce nemmeno i mezzi di sussistenza. Ora, persino filosofi tutt'altro che libertari, tutt'altro che partigiani dell'emancipazione individuale e sociale, sostenevano che quando un contratto viene violato unilateralmente, chi ne subisce gli effetti ha tutto il diritto di andarsi a prendere quei beni, quelle ricchezze, quelle condizioni che gli sono stati sottratti; se non ha nessun accesso a questo mondo della proprietà è necessario e giusto che quel mondo lo attacchi allungando le mani sulle ricchezze, cioè rubando. All'interno di questa società, anche se numericamente il problema sembra poco consistente, perché sono in pochi tutto sommato ad essere rinchiusi, il ricatto del carcere pesa su milioni di individui. La sopravvivenza si fa sempre più precaria, basta pensare alle ragioni concrete per cui la maggior parte di quelli che finiscono in carcere sono processati e poi condannati e rinchiusi; si tratta, per la stragrande maggioranza, di piccoli reati, furti, traffici che un ordinamento legislativo diverso potrebbe domani considerare come non reati, e quindi cancellare in un sol tratto tutto quello che per decenni è stato considerato crimine. E questo alla faccia dell'universalità dei principi che dovrebbero valere in ogni luogo e in ogni epoca. Le ragioni sociali del crimine sono talmente evidenti, che i riformatori dello Stato devono far finta di metterci mano. 
Ci sono stati diversi professori universitari, persone per bene, generalmente di sinistra e con ottime intenzioni pedagogiche, che hanno cominciato a parlare di abolizione del carcere all'interno di questa società. Il carcere così com'è, in fondo, alle anime pie di sinistra non piace, perché rinchiudere a chiave uomini e donne per lo più poveri è una cosa sgradevole e degradante, tanto che questi bei personaggi sono i primi a dire che la funzione rieducatrice della punizione è una manifesta menzogna, perché il carcere non ha mai rieducato chicchessia; al contrario -aggiungono - è una palestra del crimine: quelli che vi sono entrati perché non potevano o non volevano lavorare non fanno altro che organizzare meglio le loro attività criminali del futuro. Per tutti questi illuminati, quindi, il carcere è qualche cosa di spiacevole, è qualcosa che andrebbe modificato e se possibile cancellato da questa società. Evidentemente, questi professori si rendono conto che, in una società fondata su regole coercitive decise da una minoranza che domina il resto della popolazione, il problema del castigo non ha soluzione. Se il carcere potesse essere abolito, sarebbe solo per essere sostituito con altre forme più sociali, meno legate a un'istituzione totale (identificata in un edificio ben preciso, con funzionari ben precisi, eccetera), come i braccialetti elettronici alle gambe, queste catene pressoché invisibili capaci di creare una nuova figura: il detenuto sociale. Tutto ciò non fa di certo aprire il carcere né porta meno carcere nella società; semplicemente, fa diventare la società sempre più simile a un carcere. Vanno in tal senso anche le proposte di riappacificazione tra le vittime di determinati furti e i loro autori. Ad esempio, i metodi proposti nella democrazia scandinava, piuttosto progredita dal punto di vista di queste forme pulite di punizione sociale, sono del tipo: se mi hai rubato lo stereo, invece di mandarti in carcere -ospitalità forzata e forzosa che tra l'altro sono io a pagare in quanto contribuente -, mi metto d'accordo con il tuo giudice e magari una volta al mese vieni e mi rifai la facciata del palazzo, mi dai una mano a tagliare le aiuole. Queste proposte, ideate da chi è pagato dallo Stato per trovare soluzioni a quelli che sono problemi creati dallo Stato, nascondono un fatto: all'interno di questa società, il problema del carcere può essere semplicemente spostato, cioè si può trasformare sempre di più la società in un immenso carcere in un ergastolo sociale, ma non distrutto. 
Esiste una differenza profonda fra la prospettiva di abolire il carcere all'interno di questa società, cosa che significherebbe rafforzare il dominio dando una vernice di rispettabilità a un ordine sociale profondamente autoritario, e quella di distruggerlo - il che significa: distruggere tutte le condizioni sociali che lo rendono necessario. Questa è una cosa completamente diversa. Paradossalmente, la sola prospettiva non utopica non è quella di pensare che possa esistere il denaro senza il furto, il potere senza le rivolte, la colonizzazione senza la resistenza; è quella di sovvertire alla radice le condizioni che rendono tutto ciò necessario, sopprimere le classi e abbattere ogni Stato.
L'ultimo punto a cui vorrei accennare, lasciandolo aperto per la discussione, è questo: cosa significa battersi ora per una società senza carcere, quindi non soltanto per distruggere le prigioni e il mondo che le costruisce, ma anche per non costruirne mai più? Significa ripensare in modo radicale non soltanto il problema della regola e dell'accordo, ma anche il problema di come far fronte alla risoluzione dei conflitti che in ogni contesto sociale - con buona pace di tutti i propagandisti socialisti e anche anarchici del passato - si verificherebbero. Se questa società, con il grado di putrescenza che ha raggiunto, non ci lascia certo essere ottimisti sulle sorti di una trasformazione radicale del mondo, ci pone il problema di come affrontare diversamente il conflitto: non più con la mentalità ortopedica (non sei d'accordo con determinate regole, non vado a rivedere le regole stesse, visto che le abbiamo stabilite di comune accordo, dico semplicemente che sei nemico di un modello, modello universalmente accettato e quindi un'altra volta coercitivo, e se non ti metto in carcere, ti metto in qualche manicomio, ti considero pazzo, ti faccio curare dalla scienza che ti rimetterà a posto). Queste soluzioni sono altrettanto autoritarie e forse ancora più totalitarie, perché se il carcere almeno considera il criminale cosciente e risoluto nella sua identità di criminale, marchiare invece chi trasgredisce le regole di questa società mostruosa come un malato che ha bisogno di cure significa non soltanto metterlo nelle mani di specialisti che lo tortureranno magari scientificamente e senza che si veda il sangue, ma significa anche considerarlo incapace di determinare per sé cos'è il giusto e lo sbagliato. Cosa significa battersi quindi per un mondo senza sbarre, cosa significa quindi distruggere il carcere, questa cosa abominevole che è chiudere a chiave degli uomini e delle donne, per non costruirne mai più? E cosa significa legare questa prospettiva di distruzione del carcere, in quanto distruzione della repressione, della pace sociale, del Diritto, alle lotte attualmente esistenti nelle carceri? Che cosa vuoI dire, in questa prospettiva di distruzione del carcere, essere solidali con chi, attualmente detenuto, si batte evidentemente non per distruggere tutte le prigioni (perché questa sarà sempre il desiderio di una minoranza), ma per attenuarne gli aspetti repressivi? Cosi come non esistono molti individui all'interno della società a voler cambiare radicalmente le regole del gioco, non si vede perché, per il semplice fatto di essere tali, i detenuti dovrebbero raggiungere chissà quale consapevolezza per cambiare le sorti proprie e altrui. E qui il problema si allarga di nuovo: le prigioni non sono nient'altro che il concentrato di questa società, dei suoi spazi, dei suoi tempi, del suo lavoro, delle sue concezioni urbanistiche (basta pensare a tutti quegli edifici che, nell'arco di mezzo secolo, sono stati via via manicomi, scuole elementari, carceri, ospedali senza che si modificasse in nulla la loro struttura, cosa che la dice lunga sul mondo in cui viviamo ...). Il carcere è ovunque, basta guardarsi attorno: telecamere di sorveglianza ad ogni angolo, esattamente come quelle che ci sono nelle carceri, controllo informatico sempre più incessante, sempre più capillare nella sua penetrazione sociale, senza dimenticare le sempre attuali divise di carabinieri e polizia, come quelle qua fuori stasera. All'interno di questo mondo che è sempre più simile a una prigione, cosa significa immaginare addirittura una società senza gabbie e cosa significa, in quanto detenuti sociali, essere solidali con altri che sono detenuti in senso stretto? Questi si battono per dei miglioramenti parziali, così come nel resto della società le lotte partono quasi sempre su basi rivendicative di miglioramenti limitati. Ciò che fa la differenza, sono i rapporti che nascono nel corso stesso della lotta, e i metodi che si usano. Per il resto, la banalità delle loro cause immediate, diceva il filosofo, sono sempre state il biglietto da visita delle insurrezioni nella storia. 
Attaccando i mille nodi che fanno funzionare il carcere e il suo mondo, noi stessi abbattiamo sempre più le mura di quel carcere personale che è la rassegnazione.
Solo alcuni buoni interrogativi, come vedete, in un'epoca in cui abbondano le false risposte.